“La mossa del cavallo”
Luigi Ballarin vive a Venezia, Istanbul e Roma. Le coordinate geografiche aprono al panorama culturale in cui è immerso l’artista che, a Siena, presenta le sue opere: quadri, sculture e opere installate sul pavimento. Lo sguardo dello spettatore è immediatamente catturato da sagome di cavalli, tappeti ed aree di colore recintate da geometrie ben definite. Un caleidoscopio di colori immerso in un gioco delle forme che prende il sopravvento su tutto, sulle sagome stesse che, accampate sul fondo dei quadri, diventano evocazioni di una realtà riconoscibile ma sfuggente.
Alla forma geometrica dei cerchi, rettangoli e quadrati è dato il compito di ordinare, rendere coeso e pre-stabilito tutto ciò che potrebbe essere pura materia – il colore – allo stato libero.
Alla sagoma, invece, il compito di evocare ciò che, a sua volta, rimanda ad immagini di spiritualità, il tappeto, o di indomita libertà dello spirito, il cavallo.
Ballarin vive “a cavallo” di Venezia, Roma e Istanbul, città dal patrimonio genetico votato alla spiritualità e alla ricerca di una sua rispettosa rappresentazione.
Nella storia, Venezia è stata “ponte e porta” tra l’Occidente e il medio ed estremo Oriente, riuscendo ad unire il codice formale della tradizione figurativa con l’opposta tradizione mediorientale priva di riferimenti naturalistici, diventando così una delle culle dell’arte bizantina. Alla base, c’è il rapporto tra la materia e lo spirito con l’annessa possibilità che l’essere umano ha di rapportarsi, con gli strumenti consentiti, ad esso. La prerogativa dell’artista è unire con la sua opera ciò che “alloggia” in una dimensione altra con ciò che alberga, per opposto, in una dimensione materiale e Ballarin si cimenta, con gesti ostinati e seriali, a risolvere il tema che, dalla notte dei tempi, ogni artista affronta: cosa si rappresenta e come rappresentarlo.
Tra una domanda e l’altra si muove anche l’estetica che imprime nella sua ricerca un ritmo, una cadenza, un passo… E se anche i cavalli non ci fanno sentire il loro scalpitìo portano, di certo, tatuata sulla loro pelle il ricchissimo e variopinto corredo di disegni della cultura turca e veneziana, legati senza soluzione di continuità nello spazio e nel tempo, mentre a quelli del video il compito di ricordarci il vero.
Michela Eremita
Innumerevoli cavalli abitano, da sempre, il nostro immaginario.
Cavalli che provengono dalla letteratura, dall’arte, dalle fiabe, dai
miti, dai sogni, cavalli dipinti o narrati, cavalli epici o tragici,
magici o patetici, presenze familiari o perturbanti: i cavalli sembrano
essere ubiqui, unipervasivi e problematici.
Il cavallo, ogni cavallo, è infatti originariamente, irriducibilmente,
duale, visibili-invisibile, prossimo e remoto al tempo stesso: corporea,
fenomenica, immanente, tangibile presenza e trascendente, intangibile
enigmatica eccedenza. Al cavallo, infatti, tradizionalmente viene
riconosciuto lo statuto di mediatore tra il mondo dei mortali e quello
degli immortali, tra quello dei vivi e quello dei morti, tra visibile e
invisibile, terra e cielo.
Sono questi i cavalli che Ballarin insegue nella sua ricerca artistica:
si profilano nel loro inframondo magico sospesi in una indecifrabile e
irrisolta presenza-assenza; simulacri ippomorfi, paradossalmente
individuati e occultati, adombrati dalle loro bardature multicolori, si
offrono e si sottraggono allo sguardo, eludono il pensiero e adescano
l’immaginazione. Sono “corpi metaforici” concrete finzioni, ossimorici
“corpi chimerici” che risplendono di una luce veneziana che è anche
quella dell’Oriente da cui provengono.
Gavina Cherchi